Elsa Morante, menzogna e sortilegio dello scrivere
Ritratto di Signore è ripartito il 22 novembre con un ciclo tutto italiano. Questa volta a essere raccontate sono Goliarda Sapienza, Natalia Ginzburg, Annamaria Ortese ed Elsa Morante.
Il quarto e ultimo appuntamento è il 14 febbraio alle 19.00, sempre alla Libreria Campus, con Elsa Morante raccontata da Giorgia Antonelli, che per l’occasione firma questo articolo.
…Riguardo a questo lungo romanzo, veramente, cara Natalia, mi è difficile parlarne. Quel che so,
è che da più di due anni non vivo che di questo, e lo scriverlo m’ha procurato una felicità
straordinaria. Di più non so dire, ma sono certa che, per quel che mi riguarda, non potrei fare di
meglio.
Con queste parole Elsa Morante portò Menzogna e sortilegio, il suo primo romanzo,
all’attenzione di Natalia Ginzburg, che allora lavorava presso la casa editrice Einaudi. La
Ginzburg se ne innamorò e scrisse alla Morante, in risposta all’invio del manoscritto: “Lo trovo
bellissimo, indicibilmente bello, straordinariamente ricco di significati per me. Ne sono ancora
tutta presa, e non riesco a vedere che quei luoghi e quelle persone, non riesco a staccarmene
del tutto… È un libro di una lacerante tristezza, ma di una grande serenità insieme”.
Così, esattamente settant’anni fa, nel 1948, Menzogna e sortilegio fu dato alle stampe, proprio
per le Edizioni Einaudi. La sua autrice lo aveva scritto e riscritto, febbrile e solitaria, dal 1944
al 1948 nella casa di via Sgambati, a Roma. Aveva interrotto solo una volta la scrittura, per
cause di forza maggiore, quando fu costretta, insieme al marito Alberto Moravia, ebreo e
antifascista, a lasciare Roma durante la guerra per nascondersi in Ciociaria, e ad affidare il suo
manoscritto nelle mani dell’amico regista Carlo Lodovico Brabaglia, che lo conservò fino al
loro ritorno.
Quando nel ’48 il romanzo finalmente venne pubblicato divise l’opinione pubblica e la critica,
nonostante la vittoria del Premio Viareggio, che Menzogna e sortilegio ottenne ex aequo con I
fratelli cuccioli di Palazzeschi. Che opera era mai, nel mondo letterario che si affacciava al
Neorealismo nel tentativo di elaborare i lutti e i traumi del fascismo e della recente guerra,
questo romanzo sontuoso, maestoso, e al tempo stesso così intimamente privato per trama e
stile?
L’esordio della Morante è un libro che alla sua uscita è fuori dal coro, e che ancora adesso brilla di una luce insolita all’interno della storia della letteratura italiana. Non è un romanzo neorealista, non è un romanzo che tenta di dare un senso alla guerra e alle sue conseguenze, quello arriverà più tardi, negli anni ’70, con quell’opera monumentale e magnifica (e dalla storia editoriale altrettanto controversa) che è La Storia, quando la Morante troverà una coscienza politica, ben diversa dalla “maturità” che l’esperienza diretta della guerra le aveva portato e che è invece ben presente in Menzogna e sortilegio.
In questa fase della sua vita, dopo le storie per bambini e la raccolta di racconti Il gioco segreto, il suo primo libro, Elsa ha bisogno di affermare se stessa, di convincersi e convincere gli altri di essere uno scrittore, e sembra non curarsi degli sviluppi recenti della storia della letteratura pur di affermare la sua identità e la propria idea di scrittura. Ritorna indietro, scrivendo un romanzo fortemente descrittivo, ottocentesco, nostalgico, ricco di venature e rimandi che si potrebbero definire manzoniani, di digressioni aperte e analessi ripetute a raccontarci la vita dei personaggi.
La vicenda è ambientata a cavallo tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento in un paese
piccolo e senza nome, situato in un meridione identificabile con la Sicilia che però è una
Trinacria chiusa, quasi priva di luce, dove i vicoli delle dimore povere e buie, delle case di
piacere e delle osterie che abitano il romanzo sono attraversate dalle carrozze scintillanti
della nobilità, e raccontata da un narratore esterno, onnisciente, che interviene nel testo
apostrofando i suoi lettori in tono allocutorio. Pur raccontando una dimensione privata,
straniante, a tratti claustrofobica nell’analisi psicologica dei suoi personaggi, il romanzo ci
restituisce un grande e barocco affresco sociale, in cui il focus della narrazione si stringe sulle
sventure e i drammi di quella piccola borghesia che vive schiacciata tra il desiderio di
ricchezza e l’ammirazione per la nobiltà che ancora perdurava nel meridione, indifferente al
suo stesso declino, sull’umile destino riservato a chi lavora duramente “e porta tutti i suoi
vestiti indosso” e quello di chi ancora può non dover lavorare e si adagia nelle coltri di
sontuosi palazzi, tra i desideri ardenti dell’amore che valica le differenze di ceto e le regole di
una società ancora bigotta e giudicante.
Anche nelle scelte stilistiche si intravede la studiata coerenza che rivela i grandi narratori: nel
romanzo si scorge già il gusto per l’aggettivazione ricca, insolita, ma l’impianto resta classico,
solido, diacronico. Persino il linguaggio appare avulso dalla modernità ma contiene già in nuce
tutti gli elementi che diverranno la cifra propria dello stile morantiano: la doppia
aggettivazione, il periodo complesso e ipotattico ma dal ritmo sincopato grazie all’uso
sapiente del punto e virgola, che spezza i periodi più lunghi e complessi, la commistione di
termini aulici e ricercati uniti ai meridionalismi che sempre furono cari alla Morante, le
piccole didascalie a inizio capitolo che costituiranno il vezzo poetico ricorrente di tutti i suoi
romanzi.
Manifesti sin dalle sue prime pagine, tutti questi aspetti concorrono a far apparire Menzogna e
sortilegio, agli occhi del lettore moderno, un romanzo respingente se pure affascinante, come
forse doveva sembrare la stessa Elsa a chi le si accostava per la prima volta, così denso e
descrittivo che il lettore fa fatica a non sperdersi, a non abbandonare, a non lasciarsi
sopraffare dalla sua prosa magniloquente. Ma basta abbandonarsi alla scrittura per rendersi
conto che nessun dettaglio, neppure quello apparentemente più marginale, è fine a sé stesso:
tutto concorre alla trama, che si ricompone perfettamente capitolo dopo capitolo, in un
avanzare vorticoso che coinvolge e trascina fino alla fine delle sue quasi ottocento pagine.
A margine di questo coraggioso e complesso esercizio di stile, però, quello che più colpisce è la
semplicità con cui la Morante si spinge a raccontare tra le righe la propria storia, a mettersi a
nudo; racconta Anna Folli in MoranteMoravia – una storia d’amore (Neri Pozza), che il giorno
dopo l’assegnazione del premio Viareggio la Morante dichiarò:
Quando per la prima volta ho visto la copia stampata sono scoppiata a piangere. Mi sentivo
messa a nudo davanti a tutti. In quel momento avrei voluto tenerlo solo per me, ben chiuso in
fondo a un cassetto.
Con la stessa sincerità feroce e vulnerabile affermerà, anche dopo la pubblicazione de L’isola
di Arturo che nel ’57 le valse il Premio Strega e la consacrazione letteraria, che Menzogna e
sortilegio era il suo romanzo migliore, “tale che forse non potrò mai scriverne un altro dello
stesso valore”, il romanzo che più le era caro, forse perché quello in cui più aveva messo sé
stessa.
Se scrivere vuol dire raccontare la verità per mezzo della finzione, in questo romanzo che con
qualche forzatura si potrebbe definire quasi un memoir dai toni affabulatori, è fin troppo
facile riconoscere Elsa in Elisa, la voce narrante, e in quella “i” che le separa sembra innervarsi
la costa dell’intera narrazione. A Elisa, compreso l’amore viscerale per i felini, Elsa attribuisce
i propri difetti e le proprie virtù, incluse le asperità caratteriali:
Ebbene, io non cerco il perdono e non spero nell’altrui simpatia, ciò che io voglio, è soltanto la
mia propria sincerità.
E la sincerità spietata, dura, ostile, che caratterizzò la vita della Morante, entrambe, Elsa ed
Elisa, la trovano, per paradosso, nella menzogna, nell’affabulazione, entrambe scrivono per
vincere la timidezza, per entrare nella vita reale attraverso la favola, tanto che non a caso
l’esergo del romanzo proprio alla favola è dedicato:
Dedica per Anna
Ovvero
Alla Favola
Di te Finzione, mi cingo,
fatua veste.
Ti lavoro con l’auree piume
che vestì prima d’esser fuoco
la mia grande stagione defunta
per mutarmi in fenice lucente!
L’ago è rovente, la tela è fumo.
Consunta fra i suoi cerchi d’oro
giace la vanesia mano
pur se al gioco di m’ama non m’ama
la risposta celeste mi fingo.
Chi conosce la vita privata della Morante non farà fatica a trovare, nel rapporto tra Elisa e
Anna e tra Anna e Cesira, le tre generazioni di donne che attraversano il romanzo, gli echi del
rapporto conflittuale con la madre (“Maledetta”, scrisse una volta Elsa su un bigliettino subito
dopo un litigio, a sua madre, per poi infilarle sotto la porta un altro bigliettino con su scritto,
semplicemente, “Benedetta” / “Ebbene, ascolta quel che ti risponde tua madre. Che tu sia
maledetta, ecco la mia risposta. Sì ti maledico, TI MALEDICO…”, dice Cesira ad Anna); l’infanzia
tradita dell’aver appreso di non essere figlia di suo padre, Augusto Morante, impotente e
perciò incapace di generare, ma di un altro uomo, Francesco Lo Monaco, in questa doppia
paternità che la lasciò, in effetti, senza padre alcuno; la povertà, che sempre tormentò i suoi
giorni, fino all’ultimo, anche dopo essere diventata la benestante Signora Moravia e l’autrice
da Premio Strega, e la scrittura, come viatico di salvezza, come ricerca e affermazione
dell’identità.
I temi cari alla Morante sono tutti qui: il rapporto madre-figlio, la ricerca del padre, gli umili
come destinatari principali e fulcro dei suoi romanzi, i ragazzini come sguardo privilegiato in
grado di raccontare il mondo attraverso la narrazione e la poesia, e di salvarlo.
Umberto Saba le scrisse nel ‘53, a proposito de Lo scialle andaluso: “È in questo eterno
rapporto tra la madre e il fanciullo che devi cercarti (almeno in quello che scrivi) e devi
cercarti dalla parte della madre. La tua nostalgia di essere un ragazzo è – in realtà – la
nostalgia di non aver messo al mondo un ragazzo: […] tutte le vite sono, in un senso o
nell’altro, delle vite mancate, l’arte è lì per soccorrere a queste mancanze”.
Attraverso la penna della Morante la nostalgia di essere un ragazzo si fa arte ma anche precisa
visione poetica, e attraversa tutta la sua produzione letteraria, dove sempre la voce dei
ragazzi si staglia fervida e cristallina e presta alla vita il filtro della meraviglia: alla innocente
sincerità di Elisa in Menzogna e sortilegio seguirà la voce adolescente e selvatica del
protagonista de L’isola di Arturo, e a questa farà eco la vocina celeste di Useppe, il bambino-poeta che parla agli animali, ne La Storia.
In Menzogna e sortilegio ci sono già tutti gli elementi che costituiscono l’universo poetico della
Morante, in un modo forse ancora forastico, come direbbe lei, ma chiaro e luminoso, e c’è
anche un’altra Elsa: c’è la Morante intera con la sua idea sublime e tormentata dell’amore,
l’Elsa che scriveva a Luisa Fantini “Luisella cara, non bisogna voler bene a nessuno, è troppo
terribile”, quella che amava al modo tenero e rabbioso dei timidi, e di cui Cesare Garboli disse
“Era una cannibale, con lei bisognava aggredire e difendersi, addentare e lasciarsi mordere”,
c’è la donna, con il suo bisogno costante di sentirsi amata e il timore di non esserlo, che
riverbera sia in Anna, la protagonista, che in Elisa, ma soprattutto c’è il suo bisogno di verità e
di sincerità, la sua inclinazione necessaria per la narrazione, la devozione per il suo talento di
scrittore (come la Ginzburg, non amava il sostantivo declinato al femminile, in cui riconosceva
delle sfumature dispregiative), per l’arte di dare alla luce scrivendo, di rievocare, di rendere
vive le anime attraverso la scrittura.
E il romanzo è davvero una rievocazione di morti, di spiriti, di personaggi indimenticabili,
attraversati dalla menzogna e riportati in vita dal sortilegio dell’amore, a metà strada tra la
narrazione realistica e la fantasia sfrenata e surreale della magia. Elsa Morante mette tutta la
sua devozione per la scrittura nella scrittura, e strega il lettore con un incantesimo,
consegnandogli un romanzo intessuto di suggestioni e personaggi che restano ad abitare la
sua mente molto oltre la parola FINE.
Nel suo diario scrisse:
Io credetti nelle mie favole come una specie di Rivelazione e i loro personaggi non furono più, per
me, delle ombre, ma quasi delle anime incarnate.
Con Menzogna e sortilegio Elsa Morante porta la sua anima nella scrittura, e nella scrittura la
menzogna della letteratura che crea il sortilegio dell’amore, e della vita.