Emily Dickinson, poeta al calor bianco
Ritratto di Signore è ripartito il 10 gennaio con un nuovo ciclo di Signore della letteratura. Questa volta a essere raccontate sono Sylvia Plath, Emily Dickinson, Flannery O’ Connor e Simone de Beauvoir.
Il secondo appuntamento è il 7 febbraio alle 19.00, sempre alla Libreria Campus, con Emily Dickinson raccontata da Giorgia Antonelli, che per l’occasione firma questo articolo.
Cadde tanto in basso – nella mia considerazione
che lo udii battere in terra –
e andare a pezzi sulle pietre
in fondo alla mia mente –
ma rimproverai la sorte che lo abbatté – meno
di quanto denunciai me stessa,
per aver tenuto oggetti placcati
sulla mensola degli argenti –
Questa poesia di Emily Dickinson era appesa nella mia cameretta di adolescente. Era, e resta, una delle mie preferite: la poeta avverte un suono, un precipitoso risuonare di cocci infranti, la immagino correre verso la stanza da cui ha udito il fragore, guardare la mensola e capire tutto in un istante: l’oggetto ritenuto prezioso era un falso, l’inganno è svelato, la colpa non è di ciò che ha causato la caduta, ma di chi non ha compreso l’inganno. Tutto è rapidissimo: la caduta, lo sgomento, il biasimo, la rivelazione. È il racconto vorticoso di un’epifania improvvisa, l’epifenomeno di un non ritorno.
Nell’enigma, e nel suo disvelamento, ha sempre pulsato ai miei occhi il cuore della poesia di Emily Dickinson, che amava gli indovinelli con cui farciva le sue corrispondenze, che conosceva il noumeno che abita in ogni piccola cosa del creato. Non credeva in Dio, gli preferiva la letteratura, ma credeva che ogni piccolo atomo sprigionasse vita, il suo animismo è una religione domestica, che crede alle rocce e alle piante, agli uccelli e alle stagioni, in cui i mesi sono ospiti attesi, e i tramonti giochi con l’universo, da riprodurre ognuno secondo la capienza della propria mano. Nomi comuni come Morte, Verità, Bellezza, Estasi, Vita, Amore, divengono cosa viva, si ergono altissimi nelle maiuscole del suo stile inconfondibile. Si svelano al mondo in attimo di consapevolezza, obliqui per non accecare, ma profondamente pulsanti, apparizione miracolosa di subitanea rivelazione.
Per me lei stessa è stata epifania, quando è arrivata da me, cadendomi tra le mani, non oggetto fasullo ma al contrario solido, autentico, eterno. Avevo quindici anni e conoscevo da sempre l’arte di perdermi in libreria: vagavo per ore tra gli scaffali assaggiando frontespizi, annusando quarte di copertina, dando una leccatina agli incipit, in quel piacere oggi per me sempre più raro di farmi attrarre da qualcosa che non conoscevo, il desiderio vibrante di stupirmi a guidarmi come una rabdomante tra le coste dei libri. Erano gli anni ’90 e Mondadori aveva iniziato a stampare I miti poesia: una selezione di poeti e poesie da tutto il mondo, senza testo a fronte, meno di cento pagine, a 3900 lire, un prezzo adatto anche alle mie tasche di adolescente. La vecchia Feltrinelli in via Dante li teneva in un cesto, alla rinfusa, insieme ai Millelire di Stampa Alternativa, e passavo le ore a frugarci dentro. Fu così che Emily Dickinson mi trovò, e sono certa che sia stata lei a trovarmi, con quella sua religione privata, la pervicace convinzione che ogni cosa avesse un’anima.
Lei fu il mio stupore esaudito, l’innamoramento istantaneo per quella scrittura scabra, anomala, personalissima, ferocemente contemporanea. All’epoca leggevo moltissimi classici, e molti poeti fra questi, ma lei era diversa: non sembrava semplicemente fuori dai canoni ottocenteschi, era fuori dal tempo e dallo spazio, proiettata in un’eternità letteraria che costituisce, a ben vedere, la sua cifra più autentica.
La sua intera esistenza fu un enigma, un segreto sotto gli occhi di tutti, la dama bianca che visse da autoreclusa nella propria casa, circondata da pochi affetti amatissimi e dalle sue stesse parole (L’anima sceglie la sua compagnia – poi serra le porte) e sembra inconcepibile che una donna che abbia vissuto lontana dalla vita reale potesse raccontare l’esistenza in modo così perfetto, ma la Dickinson apparteneva a quella categoria di scrittori che dietro la calma apparente nascondono un Vesuvio in eruzione, che incendiano l’anima con parole al calor bianco, strumenti di ricerca di una Verità che valica il tempo degli uomini e che una volta trovata va centellinata, perché non incendi col suo fulgore
Di’ tutta la Verità ma dilla obliqua –
Il Successo sta in una Curva
Troppo luminosa per la nostra inferma Delizia
la superba sorpresa del Vero
come un Fulmine chiarito ai bambini
con dolci spiegazioni
la Verità deve abbagliare gradualmente
o tutti sarebbero ciechi –
Era uno di quei poeti a cui, per inseguire la Bellezza e schiuderne i segreti, basta serrare la porta alle proprie spalle e rivolgersi alle praterie dell’immaginazione
Per fare una prateria ci vuole un’ape e una gaggia,
un’ape, una gaggia,
e la fantasia.
La fantasia da sola è sufficiente,
se l’ape è assente.
Amò selvaggiamente poche, elette, esistenze, uomini, donne ed esseri viventi ma fu sposa di nessuno perché temeva di perdere i suoi giocattoli, le parole, a cui consacrò la sua fedeltà. Morì in vita molte volte, per una misteriosa malattia, che le rese la morte amica fraterna e la vide altrettante volte tornare a scrivere. Possedeva un’ironia sagace e una verve inconfondibile, che riservava alle persone che amava o a chi non sapeva comprenderla.
In vita rifuggì il successo, inutile ai fini dell’Estasi, e la pubblicazione, quell’esporsi volgare – come una rana che gracida il proprio nome – un lungo giorno di giugno – a una palude ammirata eppure quando ci provò, inviando le sue poesie agli editori, la sua personalità visionaria le impedì di ricevere ciò che più desiderava, essere riconosciuta. Solo tre delle sue poesie furono pubblicate quando era in vita. Tutti, nessuno escluso, provarono a ridimensionare le sue stranezze letterarie, che invece raccontano di scelte ponderate, profondamente intenzionali. Il ritmo sincopato del verso, l’uso dei trattini in luogo della punteggiatura ordinaria a spezzare e al tempo stesso dare aria ai pensieri, a far rilucere i nomi, isolandoli; l’uso improprio, per l’editoria più convenzionale, delle maiuscole.
In questo mondo contemporaneo che fugge le maiuscole come elemento di vanagloria, Emily Dickinson ne abusava, le utilizzava per dare risalto e valore ai sostantivi che svettano, diventando concetti, idee: Verità, Bellezza, Esistenza, Estasi, Fede, Libertà, Morte sono amici fraterni, ascesi del quotidiano, epifanie enigmistiche, indovinelli che ancora oggi le norme editoriali tendono a uniformare e nella cui intensità invece si rivela tutto il suo pensiero.
Conobbe, Emily Dickinson, tutto ciò che c’era da sapere della Vita dalla Morte, danzò con lei, unica compagna con cui seppe ballare senza temerla, la cantò e la elevò a desiderio quotidiano attraverso cui far risplendere, ancora più luminosa, l’esistenza.
Amava scrivere, leggere, cucinare e curare le piante, che coltivava personalmente nella serra degli Evergreens, la casa di famiglia ad Amherst, attività che le bastavano a dare senso ai giorni, e per tutta la sua breve esistenza Emily Dickinson somigliò al suo fiore preferito, l’Indian Pipe, il fiore fantasma, una varietà perenne tipica delle campagne dell’Hampshire: bianco dal fusto alla corolla, la splendida campanula un po’ ripiegata verso il basso, nascosta a occhi non attenti, fiore bianco perché si comporta come un fungo, non effettua la fotosintesi e si riproduce tramite le sue spore.
Somiglia a quel fiore Emily Dickinson, che vestì di bianco per purezza, omaggio letterario o malattia, che visse nascosta nei suoi misteri, assaggiando la vita in una tazza, mandando tramonti facili da tenere in mano, scrivendo lettere al mondo che non le scrisse mai, distribuendo le sue spore ai posteri, le parole a sconfiggere la morte
Una parola è morta, una volta detta
Dicono alcuni –
Io dico che inizia a vivere
Quel giorno
e così visse, dicendo “No” alle passioni terrene che ne animavano il cuore Non lo sai che sei l’essere più felice proprio quando io mi nego e non comunico – non sai che la parola “No” è la parola più selvaggia che affidiamo al Linguaggio? scrisse al suo amato Otis P.Lord, che pure rifiutò, amando di più le parole, riamata, incendiando le menti di tutti i poeti a venire, consegnando il suo amore selvaggio all’eternità
Che l’Amore è tutto quel che c’è
È tutto quello che sappiamo dell’Amore,
ed è abbastanza, purché il carico
sia proporzionato al solco.
n.d.r. Le traduzioni delle poesie e delle lettere di Emily Dickinson presenti nel testo sono di Massimo Bacigalupo, Giorgia Antonelli, Barbara Lanati e Andrea Sirotti.