LETTI DA NOI/6: Figlie di Brooklyn di Jacqueline Woodson
Per molto tempo, mia madre non era ancora morta. La mia storia avrebbe potuto essere più tragica. Mio padre avrebbe potuto darci dentro con la bottiglia o con le siringhe o con una donna e lasciare me e mio fratello a prenderci cura di noi stessi – o peggio, avrebbe potuto lasciarci alle cure dei Servizi per l’Infanzia di New York, dove, diceva lui, era raro ci fosse un lieto fine. Ma non è successo. Adesso so che a essere tragico non è il momento. È il ricordo.
La storia di August, che si schiude con questo folgorante incipit, è al centro di un romanzo bello e profondo scritto da Jacqueline Woodson intitolato Figlie di Brooklyn. L’opera ha inaugurato la neonata collana Rive Gauche della casa editrice fiorentina Edizioni Clichy e diretta da Tiziana Lo Porto, un nuovo progetto che «nasce come omaggio alla scena letteraria fiorita a Parigi intorno agli anni venti e ai suoi protagonisti» e che propone la pubblicazione e la scoperta in Italia di nuove voci e di autori classici della narrativa americana.
Il racconto in prima persona della narratrice ha come punto focale il tema dell’elaborazione della perdita. August ha otto anni quando, con il padre e il fratello minore, viene sradicata dalle braccia di sua madre, che ha cominciato a dare i primi segni di pazzia, e portata a Brooklyn. Siamo agli inizi degli anni Settanta e vivere in quel sobborgo «è come avere una pietra in gola»: la vita è brulicante e violenta, fatta di continui viavai, e August e suo fratello si accontentano di osservarla dall’alto della loro finestra, invidiando i bambini sporchi e smaliziati che si agitano lì in basso. Un giorno, l’attenzione di August viene attirata dal passaggio di tre ragazzine in calzoncini e top e con il sorriso stampato in faccia: sono Sylvia, Gigi e Angela, il monito di un’esistenza felice e senza madri fantasma, che da lì a poco sapranno accoglierla con amore e liberarla dal suo dolore.
La tristezza e l’estraneità che sentivo erano più profonde di qualunque sentimento avessi mai provato. Avevo undici anni, e l’idea di due cifre identiche, alla mia età, era ancora nuova e spettacolare e mi spezzava il cuore. Probabilmente le ragazze provavano la stessa cosa, potevano capirmi. Dove erano andati i dieci, nove, otto e sette anni? E adesso ci ritrovavamo tutte e quattro insieme, per la prima volta. Devo averlo sentito come un inizio, un’ancora gettata.
Ed è l’inizio di un’amicizia viscerale, in nome della quale le ragazze cercano di sostenersi e di entrare l’una nella pelle dell’altra. Sì, perché a venire a galla, in seguito, è una drammaticità inaspettata, nascosta negli angoli più bui delle loro vite. La gioia e la spensieratezza che August aveva intuito nelle amiche, in realtà, è una maschera che fa scomparire, temporaneamente, la reale lontananza dei loro mondi e l’insito dolore, che non danno a vedere, di essere costrette prima o poi ad allontanarsi. Ciascuna comincia a percorrere una strada, voluta o imposta, e solo la protagonista resta dov’è, in attesa, tra la voce di sua madre fa capolino ogni notte nella sua mente come a suggerirle di aspettarla ancora, e il desiderio, più forte di ogni cosa, di tenere in vita il lumicino salvifico dell’amicizia con le ragazze. E, come se non bastasse, si aggiunge l’obbligo di un credo (quello musulmano) che non le interessa e la conoscenza, altrettanto doverosa, di una psicologa con cui parlare. Intorno, una Brooklyn fatta di saccheggi e pericoli, che contribuisce a minare ancora di più la sua insicurezza.
«Basta fare due passi sbagliati, due passi a sinistra o a destra o indietro o in avanti, e ti ritrovi fuori dalla tua vita», scrive ad un certo punto August, a voler sottolineare il filo sottilissimo e precario che tiene tutti legati al destino. E il lettore sa già dalle prime pagine da che parte è andato il destino suo e dell’amicizia con le figlie di Brooklyn, ma non ha importanza svelarlo. Ciò che importa sottolineare è la dimensione del ricordo che tiene in vita August, come se attraverso il racconto del suo passato cercasse una sicurezza, un appiglio e un conforto per affrontare il presente. Con meno illusioni.
Nella sua nota finale, dopo aver rivelato il legame autobiografico che la unisce ad August, la Woodson afferma che «uno scrittore scrive per salvare i ricordi». Trovo che non possa esserci concetto migliore per esprimere l’essenza più profonda di questo romanzo.