Come i libri ci aiutano a essere cittadini politici migliori
Sebbene sia stato pubblicato ben due anni fa, questo articolo scritto da Lyndsey Stonebridge per la rivista inglese NewStatesman risulta ancora molto attuale: l’insegnante inglese ha infatti dimostrato come, già attraverso le prime pagine del diario di Winston Smith, George Orwell abbia qualcosa da spiegarci sul tema odierno dell’emergenza rifugiati. Dando prova che 1984 sia stata un’opera oltremodo visionaria, la Stonebridge la indica e propone come possibile tramite per una rinascita della discussione letteraria e dell’umanistica all’interno società, non solo tra gli studenti e nel contesto universitario.
Qui trovate l’articolo originale sulla versione on line della testata.
di Lyndsey Stonebridge
Mentre il dibattito sull’emergenza rifugiati diventa sempre più amaro e i nostri schermi si riempiono di immagini di barche piene zeppe di profughi, di genitori devastati che stringono i loro bambini, di gas lacrimogeno sparato sulla folla oltre il filo spinato, chi ricorda 1984 di George Orwell allora potrebbe aver presente la prima scena, che è spaventosamente evocativa di ciò che vediamo oggi. Quando Winston Smith inizia il suo primo, provocatorio diario, descrive la visione di una pellicola propagandistica del bombardamento di una barca di rifugiati nel Mediterraneo. Le bombe cadono, un uomo annega. Una donna stringe al petto suo figlio. Un’altra bomba. Il braccio di un bambino si agita impotente sulle onde. Il pubblico applaude. Scrivendo la scena inizia il processo di dissenso. Le parole di Winston cadono sulla pagina con confusa urgenza, e Orwell ritrae un vero crimine in corso.
La scorsa settimana, in una recensione del NewStatesman Jonathan Bate ha insinuato che l’umanesimo degli studi umanistici è stato reso così opaco dai dipartimenti universitari inglesi tanto che adesso abbiamo bisogno di un Professore di Pubblica Comprensione delle Scienze Umane che ci spieghi il valore dello studio letterario. Se non siamo convinti di esigere aiuto per comprendere la nostra umanità, suggerisce, possiamo allora leggere dei libri sui piaceri della lettura davvero ben scritti da alcuni tra gli ultimi uomini in grado di rivendicare se stessi come gli eredi di Montaigne (Bate stava esaminando Alberto Manguel, Michael Hoffman, James Wood e Clive James).
Stavo pensando alle osservazioni di Bate leggendo un’altra volta Orwell, chiedendomi se l’incapacità di afferrare quei profughi annegati nel Mediterraneo, che sono anche esseri umani, potrebbe essere collegata alla tanto discussa fine dell’umanistica, sia qui che, in modo più drammatico, negli USA. Penso che ci sia una connessione. Bate afferma che scrivere apre un dibattito su come essere “esseri umani riflessivi e sensibili”. Ecco perché la letteratura è un’arte preminentemente accessibile, e perché qualcosa è andato così storto se adesso c’è bisogno che qualcuno ce lo spieghi. Spingerei più avanti quest’idea dell’accessibilità. Per Bate il problema è che lo studio letterario è diventato così specializzato, così annebbiato dalla teoria, che è finito nella sua stessa trappola. Il pubblico non specializzato viene ingannato, e gli studenti sono delusi. Non sono sicuro che gli allievi inglesi di letteratura siano dispiaciuti perché è stato negato loro il piacere di scoprire se stessi, o che il problema sia la teoria, il cui momento di gloria, in ogni caso, è passato ormai da tempo. Questa generazione è stata politicizzata dagli eventi attuali come non lo è stata quella dei suoi insegnanti, e forse i libri di uomini eruditi e forbiti scritti su altrettanti uomini eruditi e forbiti (ma morti) non si connettono più profondamente con loro. Bate ha ragione quando dice che abbiamo bisogno di cominciare ad avere un nuovo dialogo con i libri, ma quali tipi di dialoghi dovremmo intraprendere?
Quando leggo 1984, ad esempio, potrei anche desiderare di conversare con Orwell riguardo al sesso. Per quanto sia un grandioso romanzo sulla libertà di pensiero, 1984 è anche un libro ebbro e timoroso riguardo la sessualità, la sessualità femminile e, soprattutto, la libera sessualità femminile. Anche se non sempre lo sa, Orwell ha qualcosa di oscuro e interessante da dire sul legame tra la violenza di Stato e quella nei confronti delle donne. Potrei anche desiderare di conversare sul perché, quando il mondo ha raggiunto un tale livello di progresso tecnologico, l’uguaglianza è diventata non più ma meno possibile, e meno desiderata dai potenti. Questo è il principale punto politico di Orwell nel romanzo.
Prima di ogni cosa, vorrei chiedergli quale sia il legame tra il naufragio della barca dei profughi e il tipo riflessivo e sensibile di essere umano che diventa Winston. Più tardi, egli ricorderà che una volta sua madre lo aveva protetto nello stesso modo in cui una rifugiata (una “ebrea”) fece con il suo bambino. Creando questo paragone, il protagonista genera una rivelazione: “I proletari sono esseri umani”, disse ad alta voce. “Noi non siamo umani.”
Questi sono esattamente i tipi di conversazione che la maggior parte degli studenti di umanistica vuole intraprendere e che, nonostante le burocrazie dell’insegnamento all’interno dei nostri dipartimenti di scienze umane, spesso comunque riesce ad avere – soprattutto perché questa generazione è tormentata da un mondo nel quale la violenza contro le donne affianca quotidianamente tutti i tipi di fondamentalismi, e dove la “promessa” digitale democratica non può più mascherare i grotteschi livelli di diseguaglianza. L’abitudine di pensare in modo indipendente leggendo e scrivendo, come Orwell comprese, è contagiosa. Il problema non è che qualche insegnamento negli studi umanistici non sembra più in grado di avere questo tipo di dialogo, o semplicemente che queste università non sono più interessate a educare esseri umani migliori. Il punto è che c’è bisogno di maggior consapevolezza del valore pubblico di queste discussioni. Come Orwell pure comprese, le conversazioni letterarie che abbiamo grazie ai libri riguardo la nostra umanità sono anche conversazioni politiche su ciò a cui noi diamo valore nell’ambito della democrazia sociale e come pensiamo e scriviamo nell’interesse di proteggerla. Proprio adesso, non è una grande idea affidare questo compito esclusivamente alle nostre sempre più bersagliate e nervosamente conformiste università. Come gli studenti che si stanno muovendo in massa nella campagna elettorale di Jeremy Corbin ci hanno detto, esistono altri posti in cui abbiamo bisogno di avere questi dibattiti. A tal proposito, forse necessitiamo di Professori di Pubblica Comprensione delle Scienze Umane ora più che mai; non per spiegare quello che la maggior parte di noi già conosce, ovvero che i libri sono un ottimo strumento per capire come diventare umani, ma per promuovere la rilevanza politica e pubblica di quella comprensione.
Oggi siamo abbastanza vicini alla mentalità che Orwell stava descrivendo che leggerlo ci risulta scomodo. Non dovremmo ridere o applaudire di fronte al naufragio di una barca di migranti, ma l’uso del “politichese” per giustificare il loro respingimento ha senza dubbio raggiunto un nuovo livello di crudele cinismo collettivo. Leggiamo la prima pagina del diario di Winston e vediamo come Orwell dà inizio ad un discorso politico:
4 aprile 1984. Ieri sera al cinema. Solo film di guerra. Uno ottimo di una nave piena di rifugiati bombardata da qualche parte nel Mediterraneo. Il pubblico molto divertito dalla scena di un grassone grande e grosso che cercava di sfuggire a un elicottero che lo inseguiva. lo si vedeva prima sguazzare nell’acqua come un delfino, poi attraverso i congegni di mira dell’elicottero, dopodiché era pieno di buchi e il mare attorno a lui diventava rosa ed egli affondava all’improvviso come se i buchi avessero fatto entrare l’acqua. il pubblico dette in grosse risate quando l’uomo affondò. poi si vedeva una scialuppa di salvataggio piena di bambini con un elicottero che le volteggiava sopra. c’era una donna di mezz’età forse un’ebrea seduta a prua con un bambino di tre anni fra le braccia. il bambino strillava dalla paura e nascondeva la testa fra i seni della madre come se volesse scavarsi un rifugio nel suo corpo e la donna lo abbracciava e lo confortava anche se era anch’essa folle di terrore, coprendolo per quanto poteva come se le sue braccia potessero allontanare da lui i proiettili. poi l’elicottero sganciò una bomba da 20 chili che li prese in pieno un bagliore terribile poi la barca volò in mille pezzi. poi ci fu una bellissima inquadratura del braccio di un bambino che andava su su su nell’aria doveva averlo seguito un elicottero con una cinepresa sul muso e uno scroscio di applausi si levò dai posti riservati ai membri del Partito ma una donna nel settore destinato ai prolet cominciò a fare un gran baccano gridando che non dovevano far vedere queste cose ai bambini no finché la polizia non l’ha buttata fuori credo che non le sia successo nulla nessuno si preoccupa di quello che dicono i prolet era stata una reazione tipica dei prolet loro non…
[da 1984 di G. Orwell, traduzione di Stefano Manferlotti, Oscar Moderni Mondadori, Milano 2016]
Da qualche passaggio particolarmente astuto Orwell smantella l’idea che sciami di rifugiati siano così minacciosi tanto che dovremmo gioire allo spettacolo della loro morte. Innanzitutto, c’è un dettaglio. Una cosa è guardare un uomo che tenta e nuota verso la salvezza solamente per essere ucciso, in un film, ma è tutt’altra cosa quando la penna rallenta la scena così che possiamo vedere che quell’uomo è pieno di proiettili, che il mare sta diventando rosa. Scrivere ci porta più vicini. Ci fa sentire anche la compassione – una madre che protegge disperatamente suo figlio. Quando l’inquadratura del braccio affondato di un bambino è descritta come “bellissima, su su su” sappiamo che è lo stesso bambino di prima, e che Orwell sta giustapponendo un punto di vista – l’occhio della telecamera che alimenta il sadismo di massa – con un’altra prospettiva. Ad alcune, ma non tutte, di queste visioni contrastanti è data voce alla fine della scena con le proteste della donna prolet, un’altra madre che stavolta protegge i suoi figli dallo spettacolo della crudeltà, che urla brutalmente “non è giusto”. La speranza comincia con i proletari, pensa più tardi Winston. È il ritratto di una libera mente in divenire, astuta nel suo autorevole punto di vista, controllata nella sua presentazione dell’euforia che giunge irruenta nei nuovi pensieri attraverso le parole.
Mi è stato insegnato di leggere attentamente i passaggi di Orwell in un ambiente educativo che anche lui ha contribuito a creare. Notare come il mondo è stato messo insieme con diverse prospettive significava esercitare la capacità di auto-riflessione necessaria alla vita democratica. Leggere Orwell, si presumeva, faceva di te un miglior tipo di essere umano o, come minimo, meno credulone di cattive ideologie. Come Orwell comprese nel 1948, questo modo di riflettere mediante la lettura e la scrittura era già un’arte a rischio: il titolo originale di 1984 era L’ultimo uomo in Europa. La speranza di rendere di nuovo viva la letteratura nella vita pubblica non può risiedere solo nell’ultima generazione. Dobbiamo anche trovare un modo per collegare la questione del “chi siamo” con il problema del tipo di società in cui vogliamo vivere. Diventare uomini migliori non è semplicemente questione di padroneggiare i piaceri dell’introspezione, ma riconoscere che l’umanità è qualcosa che ci garantiamo nella vita sociale e politica. In tal senso la speranza, di fatto, appartiene ai proletari.
Lyndsey Stonebridge è insegnante di Lettere moderne e Storia all’Università di East Anglia, dove gestisce il programma The Humanities in Human Rights.
Traduzione di Giorgia Fortunato