Il matrimonio di Chani Kaufman di Eve Harris finalista del Premio Letterario ADEI-WIZO. La prefazione di Nadia Terranova.

Il matrimonio di Chani Kaufman di Eve Harris finalista del Premio Letterario ADEI-WIZO. La prefazione di Nadia Terranova.

Il matrimonio di Chani Kaufman di Eve Harris, pubblicato lo scorso anno da LiberAria, è finalista della XVII edizione del Premio Letterario ADEI-WIZO “Adelina Della Pergola” assieme a Scorpion Dance di Shifra Horn (Fazi Editore, 2016) e Dolore di Zeruya Shalev (Feltrinelli, 2016). Vogliamo festeggiare con voi questo bellissimo traguardo proponendo, agli affezionati lettori di Chani e a chi avrà voglia di conoscerla, la prefazione al romanzo scritta da Nadia Terranova. Buona lettura!  

di Nadia Terranova

Chani Kaufman e Baruch Levy hanno vent’anni, vivono a Londra nella nostra epoca, sono ebrei ultra ortodossi, non hanno mai fatto sesso né fra loro né con altri, non si sono mai neppure sfiorati. Il matrimonio è stato combinato, ma Chani e Baruch si sono preferiti ad altri pretendenti, si sono scelti seppure all’interno di regole rigide e sotto stretta osservazione delle famiglie e della comunità, si sono visti poche volte, formalmente necessarie, ma intorno a quegli incontri ognuno dei due ha costruito in solitudine sogni, paure e fantasticherie. Non si sono mai presi per mano, ma stanno per passare insieme tutta la vita che hanno davanti. Per sempre, senza possibilità di tornare sui loro passi, portandosi sulla schiena gli sguardi di una società che costringe, ricatta e giudica. Si entra in questo romanzo pensando: però come sono forti, io non ce la farei mai. Non ce la farei a scegliere senza aver condiviso viaggi, bravate e malattie con la persona che dovrò sopportare e difendere per sempre, senza sapere con quanto rumore mastica il cibo, da che lato poggia il viso sul cuscino, con quanta energia tira su col naso quando ha il raffreddore, che odore si porta rientrando a casa, verso dove gira gli occhi se voglio parlare sul serio. Senza sapere se mi tratterà con dolcezza o superficialità, senza che abbia trascorso con me almeno qualche giorno di dolore o indifferenza. Però che coraggio, questi due bambini: stanno per compiere un passo che terrorizzerebbe ogni adulto.
Mancano poche ore al matrimonio. Baruch si concentra ma non riesce a mettere a fuoco il viso di Chani. Chani mette insieme gli indizi raccolti durante gli incontri sporadici con Baruch e prega il suo dio: «Fa’ che non sia noioso». Tutto, ma non una persona noiosa. Ovunque tu sia nata e comunque sia cresciuta, qualunque castità ritenga di dover osservare, in qualsiasi religione tu stia credendo, a qualsiasi regolamento ti sia votata, a vent’anni sei soltanto una ragazza che teme il tedio più della prima notte di nozze, più dei dolori del parto, più degli anatemi della tua famiglia. Esattamente come tutte le ventenni del mondo. Sei piccolissima a vent’anni, ma credi di essere più adulta di tutte le donne che ti circondano, e quella convinzione è così forte da diventare vera.
Sono diverse le storie che si intrecciano intorno alla cerimonia, il gioco si muove sui binari dei rapporti di potere, proiezione e frustrazione interni a un microcosmo compresso, esplosivo. Madri, sorelle, padri, rabbini e mogli dei rabbini prendono il sopravvento per poi scomparire ogni volta che il racconto torna a Chani e Baruch, con l’ingenuità e la determinazione spiazzante dei loro vent’anni, con le contraddizioni di un’educazione fatta di studio, fede, dubbi e certezze. Eve Harris, londinese di Chiswick nata da genitori ebrei polacchi, ha deciso di raccontare fino in fondo le regole della significativa comunità ebraica di Hendon, altro quartiere residenziale e borghese, dopo aver insegnato per un anno in una scuola femminile ultraortodossa. Affronta diversi temi, va indietro e avanti nel tempo seguendo le storie individuali di personaggi anche satellitari, ma la questione che mette al centro del romanzo riguarda il modo in cui si svolgono le piccole esistenze umane nei momenti in cui sono particolarmente piegate dai tabù.
In un articolo del 1972, a proposito del manifesto di una collana einaudiana che si augurava di avere fra i lettori nuovi individui senza inibizioni, Natalia Ginzburg esprimeva qualche perplessità: «Forse fra poco si scoprirà che le inibizioni, di cui l’uomo di oggi si fa gloria di essersi sbarazzato, le inibizioni e le lotte dei singoli per superarle o vivere con esse, erano il pane e il sale della vita». Di certo, se un mondo turbato da regole che opprimono è asfittico e odioso, uno in cui tutto è possibile non ha molto di interessante. Accanto a un tabù può trascorrere un’intera vita, dall’inizio alla fine. In prossimità di ciò che non diciamo ci rechiamo di nascosto a coltivare desideri inammissibili, sognare trasformazioni senza cercare il coraggio di compierle, ascoltare il nostro feroce imbarazzo, sentirci travolti da un’incontenibile voglia di fare il passo sbagliato. Come dentro un’aiuola stretta tra i marciapiedi di una città che pensa ad altro, in quello spazio soffocante spuntano la sorpresa e la meraviglia, e in alternativa (o insieme) gli alberi storti che nessuno si preoccupa di correggere. Lì nasce tutto ciò che ha a che fare con la vergogna e l’incertezza, dentro quel recinto si barrica il sogno di tradire regole passate di moda: in un certo senso, è lì che nascono le rivoluzioni più profonde e durature. I tabù sono i numi tutelari di ogni universo, grovigli in apparenza inspiegabili ma sempre percepiti come ancestrali su cui fondiamo la nostra vita e le nostre ossessioni. Quando diventiamo adulti, o ci illudiamo di esserlo, ne inventiamo su misura di nuovi per indirizzare le nostre esistenze e aggrapparci ai codici che vorremmo accettare una volta per sempre, quei muri diventano il bersaglio della nostra rabbia quando vorremmo invece sbagliare in pace, e poi ci contraddiciamo appagando alla loro ombra il bisogno di sentirci arginati e protetti. L’insieme dei tabù inventati dall’uomo costituisce un territorio che la letteratura e il mito, molto prima della psicoanalisi, non possono privarsi di esplorare.
Chani e Baruch seguono la strada che altri hanno tracciato, ma lo fanno a modo loro, compiendo qualche rivoluzione e rinunciando ad altre. Non sono eroi ma neanche soccombenti, non sono esperti come i loro coetanei privi di fedi coercitive ma neppure credono a tutto ciò che viene loro detto. «Innamorarsi è da goyim», pensa a un certo punto la pragmatica Chani per scacciare i dubbi che la assillano e non dover pensare all’educazione sentimentale che nessuno le ha impartito. Già, perché tutti in questo libro ciarlano di matrimonio, vita coniugale, bambini, doveri religiosi, ambizioni lavorative, ma si fermano prima di chiamare per nome il sentimento che li terrorizza, e chi lo fa è perduto. Eppure la speranza e la paura di quel sentimento, entrambe inconfessabili, vengono disperatamente riposte nella scelta rigorosa e tradizionale di due ragazzini incoscienti.

 

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