Natalia Ginzburg, la grande virtù di scrivere
“Ritratto di Signore” è iniziato il 22 novembre con un ciclo tutto italiano. Questa volta a essere raccontate sono Goliarda Sapienza, Natalia Ginzburg, Annamaria Ortese ed Elsa Morante. Il secondo appuntamento è il 13 dicembre alle 19.00 con Natalia Ginzburg raccontata da Giorgia Antonelli. Qui una piccola anticipazione di quel che sentirete.
Natalia Ginzburg sapeva che le donne cadono nel pozzo ogni tanto. Sapeva che in tutte loro
c’è qualcosa di dolente e di pietoso che non c’è negli uomini, un continuo pericolo di cascare in un gran pozzo oscuro, qualcosa che proviene proprio dal temperamento femminile e forse da una secolare tradizione di soggezione e schiavitù e che non sarà tanto facile vincere.
Natalia sapeva anche che, per riuscire nel loro lavoro e nella loro vita, le donne devono diventare esseri liberi, come gli uomini, è forse per questo che, come Elsa Morante, la Ginzburg rifiutò sempre di essere chiamata “scrittrice”, preferendo il termine “scrittore”. Conosceva bene la stigma che essere un’autrice donna può portare, cadere nel pozzo buio della scrittura di genere.
Le donne sono una stirpe disgraziata e infelice con tanti secoli di schiavitù sulle spalle e quello che devono fare è difendersi con le unghie e coi denti dalla loro malsana abitudine di cascare nel pozzo ogni tanto perché un essere libero non casca quasi mai nel pozzo e non pensa così sempre a sé stesso ma si occupa di tutte le cose importanti e serie che ci sono al mondo e si occupa di sé stesso soltanto per sforzarsi di essere ogni giorno più libero. Così devo imparare a fare anch’io per prima perché se no certo non potrò combinare niente di serio e il mondo non andrà mai avanti bene finché sarà così popolato d’una schiera di esseri non liberi.
Le persone che costruiscono qualcosa, che cascano rare volte nel pozzo, sono quelle libere, che non pensano a sé stesse, alle contingenze, ma inseguono pensieri più alti e più veloci e si tendono fuori dal pozzo per afferrarli. Ma questa idea di libertà, che la Ginzburg condivideva con Simone de Beauvoir, nella mia vita è arrivata molto tempo dopo, quando sono diventata anch’io una donna e ho iniziato a cadere nel pozzo e a cercare di uscirne. Mi sarei ricordata delle sue parole e avrei cominciato a scalare.
La prima lezione che la Ginzburg ha dato alla me lettrice, invece, è stata un’altra lezione di libertà, che sembra piccola ma è una delle più importanti, e avrebbe portato con sé, a cascata, tutte le altre libertà di cui ancora dovevo diventare consapevole.
Natalia Ginzburg, nata Levi, coi suoi capelli corti, lo sguardo duro e vivace insieme, la sigaretta tra le dita e il sorriso aperto, sfrontato, è entrata nella mia vita che avevo appena compiuto nove anni. Ce la portò il signor Donato, entrando in casa con le sue gambe lunghe e magre e le mani eleganti. Il signor Donato era un amico di famiglia, il padre di un caro amico dei miei, e pur essendo molto anziano ai miei occhi bambini, era mio amico. Io e lui condividevamo una passione prepotente per la lettura, e nella lettura due mondi distanti generazioni si erano incontrati e si parlavano. Il giorno della mia prima comunione mi fece brillare gli occhi quando posò sul tavolo da pranzo un lunghissimo parallelepipedo impacchettato ad arte, il regalo più bello, insieme ai pattini a rotelle, che ricevetti in quell’occasione: la serie quasi completa della collana Einaudi per ragazzi curata da Italo Calvino. Dentro c’erano Pavese, Calvino, Levi, Rodari, Cassola, Carroll, Wright, Anna Frank, Le mille e una notte, e moltissimi altri, autori che avrebbero formato il mio immaginario, e il mio gusto, di lettrice. Quel giorno il signor Donato portò nella mia vita anche Natalia Ginzburg, Lessico Famigliare e Le piccole virtù. Non so perché iniziai proprio da Le piccole virtù, forse perché era più piccolo, forse per il nome, che evocava qualcosa di bello e prezioso che anche io, a nove anni, potevo tenere in una mano, ma quello fu il primo. Lo lessi tutto d’un fiato e mi avventurai fra Le scarpe rotte, Un inverno in Abruzzo, e Ritratto di un amico, che più tardi sarebbe diventato il mio racconto preferito, ché l’avrei avuto pure io un amico così, come Cesare Pavese, con quella sua aria chiusa e ironica, l’amico la cui intelligenza ci avrebbe sempre lasciati nel dubbio di essere inadeguati, che ci avrebbe soffiato la paura, un giorno, di vederlo cedere alle sue fragilità lasciandoci soli. Ma fu alla fine della raccolta che Natalia mi conquistò, proprio con Le piccole virtù.
A casa mia non si usava dare la paghetta a noi bambini, e io quasi invidiavo i miei amichetti che ogni settimana ricevevano qualche lira per le loro spesucce innocenti, che iniziavano ad amministrare denaro. Io, se avevo bisogno di qualcosa, chiedevo. Motivavo la richiesta e i miei genitori mi davano ciò di cui avevo bisogno. Capitava avessi a volte molti più soldi dei miei amici, a volte niente, ma mi sentivo diversa. Loro accumulavano tesoretti in risparmi, io avevo sempre il giusto per la spesa che avrei dovuto effettuare. E tuttavia a loro veniva spesso negato ciò che non rientrava nella paghetta settimanale, mentre io potevo ottenere denaro anche più volte in una settimana, se mi serviva. Ricordo che andai anche a chiederla ufficialmente, la paghetta, volevo essere come gli altri, la ritenevo un segno di fiducia. Ma i miei opposero un fermo rifiuto. Dissero che preferivano così e che mi sarei dovuta adeguare. Non capii, allora, perché, e mi ritirai ubbidiente ma piccata, risentita di essere considerata una bambina incapace, finché la grandezza di quella decisione non mi fu rivelata da un racconto. Natalia Ginzburg mi spiegò che i miei genitori non mi stavano educando alla piccola virtù del risparmio fine a sé stesso, per amor di denaro, ma alla grande virtù della generosità, che considera il denaro utile, ma non lo adora per sé stesso.
Non dovremmo insegnare a risparmiare: dovremmo abituare a spendere. Dovremmo dare spesso ai ragazzi un po’ di denaro, piccole somme senza importanza, sollecitandoli a spenderle subito e come gli piace, seguendo un momentaneo capriccio: […] i ragazzi penseranno che il denaro è stupido, com’è giusto nell’infanzia pensare.
Natalia Ginzburg mi fece comprendere che c’è un piccolo e un grande persino in quelle che consideriamo virtù: risparmiare il denaro, ad esempio, è una virtù, ma piccola, mentre i miei genitori mi stavano trasmettendo una virtù ben più grande, l’indifferenza ai soldi che rende liberi di fronte al denaro.
Essere sobri con sé stessi e generosi con gli altri: questo vuol dire avere un rapporto giusto col denaro, essere liberi di fronte al denaro.
La mia prima libertà è stata questa. Ne seguirono molte altre, tra cui quella libertà di tirarsi fuori dal pozzo, non di non cascarci mai, ma di saperne uscire. Capii che la Ginzburg aveva, nelle sue mani, il dono prendere concetti e sentimenti complessi e farli immediati, comprensibili anche a una bambina di nove anni. Avvertii che la sua era la dote di chi sapeva rendere la grandezza a misura di chiunque. Con il tempo avrei compreso che piccolo e grande erano i parametri in cui si muoveva l’intera sua scrittura.
Negli anni, lo stile della Ginzburg è diventato un lessico familiare per me, cristallino e identificabile come pochi autori riescono a essere. Potrei riconoscere alla prima occhiata quel modo di mischiare il dialetto con l’italiano più letterario, quel modo unico di farci immaginare qualcuno attraverso pochissimi gesti, dettagli, manie. E sembra non solo di vederlo, Cesare Pavese, ma anche di conoscerlo, quando a descriverlo è lei:
Aveva un modo cauto e avaro di dare la mano nel salutare, poche dita concesse e ritolte; aveva un modo schivo e parsimonioso di trarre il tabacco dalla borsa e riempirsi la pipa; e aveva un modo brusco e subitaneo di regalarci del denaro, se sapeva che ne avevamo bisogno, un modo così brusco e subitaneo che ne restavamo sbalorditi; era, lui diceva, avaro del denaro che possedeva, e soffriva nel separarsene: ma appena se n’era separato, subito se ne infischiava.
E quando in Lessico Famigliare racconta di Leone Ginzburg, di Giulio Einaudi, di Turati, della Kuliscioff, restituendoci un vivido spaccato della vita dei maggiori intellettuali italiani del primo Novecento, quello che colpisce di loro non è tanto la figura, o le opere, ma il lato profondamente umano, nei pregi come nelle debolezze, e sembra di vedere il guizzo nello sguardo di Adriano Olivetti, che aveva, durante la guerra, il viso trafelato, spaventato e felice di quando portava in salvo qualcuno.
La Ginzburg ha un modo suo proprio di costruire la frase, un modo poetico in cui l’anastrofe e l’iperbato regnano incontrastati, il verbo davanti, a dare forza e vita al pensiero, e il soggetto dopo, preceduto da incisi eleganti e regolari ad approfondire paragrafi all’apparenza piani, semplici. Il verbo all’inizio traina l’azione che si ferma subito però, davanti alla prima virgola, davanti a quell’inciso che è come un dettaglio ricordato al momento, ma necessario a farci entrare nell’articolazione del suo pensiero, necessario a scatenare l’immaginazione. L’apparente semplicità della Ginzburg conferisce alla frase un andamento ritmico fatto di slanci e pause grazie a un accurato lavoro di cesello, che prende le parole dal quotidiano per ammantarle di una luce nuova, corpuscolare. In lei si affrontano indissolubili ombra e luce, si coniugano la chiarità di Palermo, in cui nacque, e le nebbie padane, che la videro crescere. Le sue parole piane scolpiscono, sotto gli occhi stupefatti del lettore, visi e ambienti, descrivono le emozioni in quel suo modo un poco ruvido e scostante, piemontese, pieno di riserbo, che tace, come in Lessico famigliare, gli eventi più personali e dolorosi e ciò nonostante rivela, impietoso, un forte sentire. Persino quando i fascisti arrestano Leone, suo marito, l’uomo che, come le diceva suo padre, l’aveva resa la mia figlia Ginzburg (e Ginzburg resterà, nei suoi libri, anche dopo essersi risposata con l’anglista Gabriele Baldini), non c’è spazio per la commiserazione e l’ostentazione della sofferenza: lo arrestarono, venti giorni dopo il nostro arrivo; e non lo rividi mai più, scrive, semplicemente, ma vi trapela l’enormità di un dolore che non si può descrivere. E anche se è impossibile non commuoversi leggendo la poesia Memoria, dedicata a Leone, la sua cifra narrativa resta sempre una sorta di pudore che racconta le profondità dell’anima attraverso le omissioni, e che conferisce alla sua scrittura il timbro fiero e timido di chi si vergogna, a volte, della verità, ma non può tacerla, com’è proprio dei grandi scrittori.
E che fosse uno scrittore Natalia Ginzburg l’ha sempre saputo, anche prima di ricevere nel 1963 la consacrazione del Premio Strega per Lessico Famigliare, sapeva di essere quel tipo di scrittore libero, che non aveva a cuore il riconoscimento ufficiale del suo valore quanto la consapevolezza delle proprie capacità, che in sé mescolava una forma di pudicizia e decoro con una di dignità e familiarità, l’ineluttabilità di sapere che avrebbe potuto solo scrivere, perché solo quello sapeva fare.
Il mio mestiere è quello di scrivere e io lo so bene e da molto tempo. Spero di non essere fraintesa: sul valore di quel che posso scrivere non so nulla. So che scrivere è il mio mestiere. Quando mi metto a scrivere, mi sento straordinariamente a mio agio e mi muovo in un elemento che mi pare di conoscere straordinariamente bene: adopero degli strumenti che mi sono noti e familiari e li sento ben fermi nelle mie mani. Se faccio qualunque altra cosa […] soffro e mi chiedo di continuo come gli altri facciano queste stesse cose […] Quando scrivo invece non penso mai che forse c’è un modo più giusto di cui si servono gli altri scrittori.
Il grande e il piccolo costituiscono, nei suoi libri, la cifra altalenante di una personalità complessa e sfaccettata, le parole diventano ordigni estensibili che costringono a pensare e a volte a commuoversi, che muovono dal familiare, dal quotidiano, per condurci su vette di pensiero altissime, autoriali.
Quando scrivo qualcosa, di solito penso che è molto importante e che io sono un grandissimo scrittore, credo succeda a tutti. Ma c’è un angolo della mia anima dove so molto bene e sempre quello che sono, cioè un piccolo, piccolo scrittore. Giuro che lo so.
La Ginzburg parte da un’unità piccola, minima, abituale, e ci rivela la grandezza, quella che illumina e colpisce, e fa come i migliori autori, che si pensano piccoli e invece sono immensi.