Zadie Smith sull’insicurezza, i social e il nuovo romanzo Swing Time
Vi proponiamo un’intervista a Zadie Smith apparsa sulla versione on line del magazine inglese Stylist in occasione dell’uscita del suo ultimo romanzo, Swing Time. Qui trovate l’articolo in lingua originale sul sito della rivista, che ringraziamo. Buona lettura!
di Alexandra Jones
Zadie Smith non sembra qualcuno che si potrebbe intimidire facilmente. Con un bottino di premi prestigiosi, milioni di libri venduti e la notorietà sulla scena letteraria newyorchese puntualmente abbandonata per l’ora di cena, sembra più una donna la cui presenza mette in soggezione gli altri, e non il contrario. Ma c’è una persona che la lascia senza parole. “Ho avuto un piccolo abbaglio quando ho incontrato Sarah Jessica Parker, in effetti,” sorride. “Adoravo Sex And The City“. E non finisce qui. “Intervistare Jay Z (per il New York Times) è stato piuttosto intimidatorio,” continua. “Era un uomo adorabile e affascinante. Ma ricordo che il mio editor mi rimproverò perché non gli chiesi nulla di Beyoncé. Non è che non mi importasse, è solo che ero molto colpita dal livello di talento di fronte al quale ero seduta.”
Posso decisamente concordare. Sto parlando con la Smith via Skype dalla mia camera a nord di Londra, e sono profondamente consapevole di essere in disordine. Lei, al contrario, è luminosa, mentre mi scruta attraverso lo schermo dal suo appartamento a Greenwich Village: rossetto rosso, una passata di eyeliner, capelli sciolti e mossi.
La Smith, 41 anni, è un prodigio letterario. Com’è noto, è cresciuta nel Willesden, e l’area nord ovest di Londra fa da scenario a molti suoi romanzi. A soli 21 anni, e già laureata a Cambridge, ha fissato un contratto editoriale a sei cifre sul retro di sole 80 pagine di storia. Quelle 80 pagine si sarebbero ampliate per diventare il romanzo Denti bianchi, che una volta pubblicato (nel 2000, quando la Smith aveva 24 anni), vinse il Whitbread First Novel Award, il Guardian First Book Award, il James Tait Black Memorial Prize e il Commonwealth Writers Prize per il miglior libro d’esordio. Ha venduto oltre un milione di copie. Era una specie di raro (quasi mitico) talento che attirava i consensi del mondo letterario e di articoli.
Proprio come Lena Dunham (regista della serie tv Girls, n.d.t.) ha fatto di recente, la sua energia e la sua voce hanno perfettamente catturato lo spirito di fine secolo tanto che, non appena Denti bianchi è stato pubblicato, è stata considerata la voce della sua generazione. Da allora ha scritto altri quattro romanzi: L’uomo autografo, Della bellezza (che ha vinto l’Orange Prize for Fiction ed è stato nominato per il Man Booker Prize), NW e l’ultimo Swing Time. Il nuovo romanzo sembra in qualche modo di più ampia portata rispetto ai precedenti lavori (l’azione si sposta da Londra all’ovest dell’Africa agli Stati Uniti, fluttuando tra gli anni Novanta e i Duemila) ma anche più introspettivo (è il suo primo libro scritto interamente in prima persona – “un monologo interiore”, lo definisce lei). Per me è finora il suo romanzo più avvincente: è come trascorrere 500 pagine dentro la complessa, anche se non sempre piacevole, mente di un’altra persona.
Insieme ai romanzi ha dato vita a un’impressionante raccolta di lavori accademici. È autrice di saggi e commenti su questioni che vanno dalla Brexit (“mia madre aveva gente che le urlava contro cose razziste per strada. Non è stato carino e nessuno ne è stato contento. Ma sembra che ci siano un bel po’ di rimpianti da parte dei favorevoli adesso…”) alla differenza tra il “takeaway” di Londra e il “takeout” di New York. Poi c’è il suo lavoro di giornalista e intervistatrice (soprattutto per il New York Times e il New Yorker) e il posto da insegnante che occupa nel dipartimento di scrittura creativa alla New York University. Tutto questo deve richiedere davvero tanta destrezza.
New York state of mind
Dal 2010 la Smith vive a New York – insieme al marito, lo scrittore e poeta Nick Laird, e i loro figli Kit (sei anni) e Harvey (tre). “Adesso ho una visione completamente distorta dell’Inghilterra,” ammette. “Ritorno in estate ed è tutto un ‘panna e fragole e Wimbledon’. Non ci vado più da febbraio. È come quando pensi ‘non posso sopravvivere un altro giorno così'”. Il suo accento varia leggermente, anche se ha mantenuto un tono basso, quello nasale del nord di Londra.
Nata nel 1975, sua madre Yvonne (emigrata in Inghilterra dalla Jamaica) e suo padre, Harvey, si separarono quando era ragazzina, ma lei è rimasta vicina a entrambi. La sua infanzia è trascorsa in una tenuta, un posto che ricorda con affetto. Crescendo si è occupata dei suoi fratelli minori, Ben (ora attore comico) e Luke (rapper). Tuttavia dice che avere sua figlia le ha fatto pensare di più alla sua adolescenza e a cosa significa essere una donna. “Quand’ero ragazzina le donne indossavano pantaloni larghi, grossi stivali e felpe, ed erano ovunque. Non era insolito essere così. Le ragazze nella mia scuola erano toste, ragazzi, non scherzavano. Erano molto sexy, ma la loro idea di sensualità era così diversa… Non barcollavano sui tacchi alti. Adesso i modi per essere donna sembrano così limitati. Come ogni ragazzina a Greenwich Village, mia figlia vuol essere Taylor Swift. Penso che sia la più grande aspirazione di ogni donna in questo momento in America.”
La Smith ammette di non aver avuto molte amicizie femminili durante l’infanzia – insieme ai suoi fratelli, erano i libri i suoi più grandi alleati. È stata questa insaziabile sete di lettura che l’ha vista lasciare Londra per l’università di Cambridge per studiare inglese. Se Denti bianchi non fosse mai stato pubblicato, immagina che sarebbe entrata nel mondo accademico. “Anche se ero felice che qualcuno volesse pubblicarlo, pensavo che, se sei una persona seria, intraprendi un dottorato.” Ma pur non avendolo fatto, sembra essere comunque una persona seria: seria ma in modo lusinghiero, come se stesse prendendo a cuore le tue domande. Le sue risposte sono opportunamente attente e misurate. È nota per essere un po’ fredda, ma quando parliamo sembra calorosa e aperta. E per me questo ha senso, perché quando degli sconosciuti le parlano, vogliono soprattutto raccontarle della loro vita. “Ascolto tantissime storie”, dice. “Forse può essere contro l’opinione comune, ma penso che quelle dei tassisti siano sempre incredibili. Ho scritto una breve storia prendendo spunto da una di queste non molto tempo fa per il Paris Review.”
La Smith ha un senso dell’umorismo asciutto e pungente, e ride spesso (una risata forte e acuta, con la testa rovesciata all’indietro), a volte di me. Si china con gioia quando le chiedo se sarebbe possibile trovarla mai una domenica, come Carrie Bradshaw, mentre mangia uova alla Benedict con un gruppo di amiche. “Niente più brunch a New York,” dice impassibile. “È così anni Novanta! Se tu cercassi di fare un brunch e avere un cosmopolitan, i camerieri non ti servirebbero nemmeno, sarebbero disgustati”. Piuttosto, il suo tempo libero è speso tra le mura domestiche. “Invitiamo un sacco di amici scrittori stressati e con molti figli. Tieni tutti nello stesso salotto e speri che i bambini si facciano gli affari loro così si può parlare per un paio di minuti di qualcosa che non sia Il trenino Thomas.”
Comunque, la sua vita a New York sembra affascinante. Lei e Laird sono noti per aver ospitato e frequentato alcune delle più brillanti feste letterarie in città. Come il Premio Pulitzer (e amico della coppia) Jeffrey Eugenides ha scritto di recente, “Tra le persone che vi partecipano (e chiunque si presenta, ed è di per sé notevole) figurano Martin Amis e Salman Rushdie, insieme a vere e proprie celebrità come Lena Dunham o Rachel Weisz”.
Grazie alla loro posizione privilegiata in un’enclave bohémien nel centro di Manhattan, la Smith ammette che c’è l’imbarazzo della scelta quando si tratta di socializzare. “Posso uscire da casa mia e ottenere un Martini in trenta secondi. Vivo vicino le gallerie, vado a vedere concerti e mostre, leggo e incontro giovani che stanno facendo cose interessanti. Quando non lavoro, mi sembra di sfruttare appieno il tempo. Mi diverto.” Ma, ammette, il fatto di avere due bambini piccoli significa sempre meno riesce a svagarsi in questo modo. “Le persone spesso rifiutano il cambiamento delle loro vite. Pensi di poter ancora essere ubriaco di notte e poi lavorare di giorno. Io non ci riesco. Adesso bevo solo una volta alla settimana e, da inglese, capirai che è grande limite da parte mia”.
A day in the life
Quando sta scrivendo, la giornata lavorativa della Smith è assolutamente rigida. Si sveglia con suo marito alle 6 del mattino, portano i loro figli all’asilo e poi ritornano a casa. Va a correre ogni giorno – “Quando stai sempre seduto alla scrivania, senza colleghi, senza nessuno con cui parlare, senza distrazioni, può essere un po’ deprimente. Così corro lungo il fiume, guardo New York e alle 9 sono alla scrivania. Ci resto fino alle 14:30 e poi tornano i bambini.”
La Smith ha prima accennato al prezzo mentale che il processo di scrittura può comportare. Ha detto che scrivere un romanzo non è mai stata un’esperienza piacevole, ed è notoriamente sprezzante dei suoi precedenti lavori, e si rifiuta persino di tenere delle copie in casa. Di Denti bianchi ha detto “Per me è un libro scritto da una persona diversa da quella che sono adesso, non è nel mio gusto… è perfetto per un ventiduenne.”
Quando le chiedo di più diventa sanguigna. “Ma chiunque scriva lo sa. Anche trascrivere questa intervista non sarà divertente per te, no? È lavoro. Ed è complicato e noioso.” Fa un mezzo sorriso, ma la piega tra le sopracciglia implica un piccolissimo rimprovero: non fare domande scontate se non vuoi risposte scontate. Così provo una tattica diversa: e riguardo l’insicurezza? Si può superare o ne hai bisogno per essere un grande scrittore? “Beh, è l’insicurezza che mi fa controllare una frase in modo ossessivo-compulsivo. Non è necessariamente una cosa negativa. Se avessi meno insicurezza lascerei perdere. E quella frase sarebbe pessima. Al contrario, se ne hai troppa, può impedirti completamente di lavorare.”
E infatti lei non è, come qualcuno di noi potrebbe pensare, una sorta di macchina da scrivere. È apparsa di recente in un episodio del podcast di Lena Dunham, Woman Of The Hour, per parlare della produttività. Come ha spiegato alla Dunham, quando sta scrivendo, non è presente on line. “Se potessi controllarmi on line, se non andassi nei meandri di Google a cercare qualcosa su Beyoncé per quattro ore e mezza, questo non sarebbe problema. Ma è esattamente quello che so che farò,” dice. Usa le applicazioni SelfControl and Freedom per bloccare Facebook e Twitter e comunica dal telefono cellulare a conchiglia. Mentre per alcuni può sembrare idilliaco – molti di noi sognano di rinunciare ai social e ai pettegolezzi per una avere una vita altrove, a creare grandi opere d’arte – lei mette in evidenza quanto questo potrebbe portare alla solitudine. “Di solito siamo io e questo qui [e stringe il suo rumoroso e grigio carlino, Maud, che si libera rapidamente dalla sua stretta, colpendo il portatile mentre va via]. Confronto costantemente me stessa e i miei limiti e tutto quello che sta succedendo, ogni giorno.”
Così come la corsa, che aiuta l’aiuta a gestire periodi di ‘malinconia’ (“qui siamo nella terra delle medicine e non mi piace prenderne, quindi trovare qualcosa che sia d’aiuto è indispensabile”), dice che suo marito, Nick, le da una mano a salvare pezzi di lavoro che lei preferirebbe cestinare. Lui è uno dei primi a leggere ed editare ogni nuovo lavoro, malgrado questo non sia sempre un processo felice.
“Naturalmente qualche volta questo causa una tensione terribile. Sto editando il suo romanzo, adesso, e non è facile. Lo stavo facendo ieri ed è diventato di cattivo umore per una modifica. Ma io dico a lui la stessa cosa che lui dice a me: preferisci essere imbarazzato davanti a me o a degli sconosciuti?”
Attualmente sono impegnati insieme nella fase iniziale di scrittura di una serie tv; ogni venerdì lasciano il loro appartamento per un caffè lì vicino, dove ampliano il loro lavoro fino alle 3 di pomeriggio. “È un procedimento molto lento,” spiega. Oggi pranzerà – ordina dallo stesso ristorante in zona ogni giorno – e poi, dato che è Halloween, ha da fare preparazioni extra prima che i bambini tornino a casa.
Prima che vada via azzardo un’altra domanda: come ci si sente ad essere Zadie Smith, una scrittrice mitica, voce della sua generazione? Sembra pragmatica: “Sai, è una cosa già vista. Vista con Martin Amis e con Doris Lessing. Potresti essere maltrattato per cinquant’anni e poi improvvisamente tutto si trasforma e diventi un gioiello nazionale. Non mi impegno, penso che devi solo tenere la testa bassa e fare il tuo lavoro. Perché è stupido, davvero.”
E quali sono le sue aspettative per il successo di Swing Time? “Ad essere sincera, mi sento sollevata anche solo per averlo scritto. A 41 anni direi che la mia vita è piena di molte altre cose – sono occupata con la mia vita familiare – quindi terminare ogni romanzo è un sollievo. È fuori dalla lista delle cose da fare, assieme a ‘comprare l’olio d’oliva’ e ‘ricorda la carta igienica’.” E con questo, la voce di una generazione mette giù la chiamata.
Traduzione di Giorgia Fortunato